Anno 2015 » Homepage Newsletter Settembre 2016 » 8xmille » "In Un Altro mondo": i momenti più emozionanti dalla voce dei protagonisti
Sono tornati da poche settimane i 4 ragazzi scelti dal Servizio Promozione per andare a fare volontariato "In Un altro Mondo", nelle opere sostenute con l'8xmille.
E, ancora una volta, leggiamo di vite cambiate da questa esperienza di solidarietà, condivisione e umanità.
Barbara - Ecuador
Poi, però, sono partita in Ecuador. Un paese meraviglioso, che nella sua eterogeneità mi ha cambiato la vita. Sono partita in Ecuador, scoprendo delle città che mai mi sarei sognata di scoprire, attraversando delle strade la cui polvere mi ha fatto rinascere, e l’ho fatto conoscendo persone che mi hanno fatto sentire a casa dal primo sorriso. “Partire è un po’ morire” sì, perché un’esperienza così non può che donarti nuovi occhi, per guardare un orizzonte che mai avresti immaginato.
Ho conosciuto il vero Ecuador entrando nelle case delle famiglie con bambini con disabilità, ho scoperto la vera bellezza del donarsi, sentendo il cuore che accelerava i battiti quando la mamma di una bambina disabile e cieca mi ha abbracciato dicendo parole che non riuscivo a comprendere, ho sentito la gioia che attraversava l’aria calda della foresta equatoriale, quando un bambino su una sedia a rotelle mi ha stretto la mano sorridendo.
Ed ecco che ci si sente un po’ morire, ma solo per rinascere immediatamente, per capire che tutto quello che pensavi di aver capito fino a quel momento, in realtà non ha alcuna importanza, per capire che la vita è una cosa meravigliosa e che non importa proprio per niente che la tua casa sia fatta di assi di legno o di cemento, domani il sole sorgerà lo stesso, illuminerà la mia vita esattamente come la tua, e non c’è nulla di cui preoccuparsi perché ci sarà sempre un motivo per sorridere.
L’Ecuador mi ha insegnato questo, e non sarò mai grata abbastanza per tutte le persone che quotidianamente mi hanno fatto “morire”, perché se non fosse stato per ogni incontro casuale, per ogni sorriso per strada, la mia vita non sarebbe rincominciata, e oggi non riuscirei a smettere di chiedere a me stessa: “ma chi ero prima di partire?”.
Ivan - Filippine
Ci sono esperienze. E poi ci sono ESPERIENZE. Solo apparentemente lo spazio tra le due è sottile. In realtà, il passo è immenso.
Un mese a Roxas, nelle Filippine, a contatto con le realtà Caritas, seduto accanto a chi ha visto l'inferno nell'occhio di un ciclone, è stato un viaggio dal valore inestimabile. Ci sono mille aggettivi per descrivere una terra ricca e primordiale, per raccontare di una cultura profondamente diversa ed affascinante, per spiegare il sacrificio e la lotta di uomini e donne eccezionali. Ma non basterebbero.
Mi viene in mente una sola parola per provare a racchiudere una valigia piena zeppa di emozioni vissute in quei luoghi: "umano". Lì, tra l'infinito verde delle isole e gli occhi vivi della gente dei baranggay, ho scoperto valori che da questa parte del mondo non abbiamo più voglia di curare, di accudire. L'amore verso la propria Terra, il rispetto verso la vita, la condivisione di ogni bene con il resto degli uomini. Lì, ho visto bambini senza scarpe sorridere di gusto, uomini senza un soldo in tasca ringraziare la natura per i suoi doni, donne stanche ritrovare le forze nell'abbraccio della propria famiglia.
Non è stato un viaggio in un Paese diverso. È stato piuttosto atterrare su un altro pianeta, come il nostro, ma indietro di secoli. Poche case, ma tanti incontri. Poche fabbriche, ma distese di piante. Poche tv, ma tanti racconti. Poche opportunità, ma un'esplosione di vitalità.
C'è un solo modo di concludere questo ricordo. "Grazie". O meglio, "Salamat". Grazie a chi mi ha permesso di arrivare lì, a guardare, a testimoniare. Grazie a quella Terra viva ed ospitale. Grazie a quegli occhi che non mi hanno mai fatto sentire diverso, a quelle mani che mi hanno accolto come se mi conoscessero da sempre.
Irene - Serbia
Dai un calcio all’impossibile. Se ci riesci, rimane solo “possibile”. Questa parola fa sempre rima con speranza, e la speranza va a braccetto con la forza.
In quei trenta giorni in Serbia io ho visto queste tre parole rincorrersi tra le strade di Belgrado, andare a sbattere contro i muri ungheresi, perdersi nel bosco oltre di essi.
Sono sinceramente contenta che Caritas Italia aiuti a nutrire la speranza di quei migranti che sono bloccati in quelle strade polverose accanto all’autostrada, perché quello che succede sotto quei muri è qualcosa che dovrebbe essere sempre al telegiornale, invece di tv non ce ne erano. Quello che succede sotto quei muri, ma anche in tutti i campi profughi della Serbia, sono convinta entrerà nei libri di storia e occuperà altre pagine in bianco e nero, nonostante il fatto che gli anni che stiamo vivendo siano digitalmente coloratissimi. Allora ben venga chi riesce a superare il detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” e ad impegnarsi concretamente, nonostante il parere contrario di chi vede in ogni straniero un’autentica minaccia. Non è facile: è palpabile la stanchezza di chi si impegna, di chi deve avere a che fare quotidianamente con questa mutevole situazione da gestire, o da vivere come operatore, ma la realtà è che se conosci ciò che ti succede intorno, non puoi fregartene.
Se incontri le persone di cui si parla, non puoi non indignarti. Finché sarà possibile passare i confini dell’Unione Europea, i migranti sulla rotta balcanica troveranno la forza di continuare a camminare, anche a costo di nutrirsi solo della speranza di ottenere una serenità maggiore di quella appartenente alla vita che si sono già lasciati alle spalle.
Possibilità, speranza e forza. Se dovessi sintetizzare queste tre parole userei la parola Ayub, che corre ancora, ma oggi lascia le sue orme nelle strade di una capitale dell’UE. Userei i nomi di tutte le persone che ho incontrato e gli occhi di quelle di cui non ho conosciuto il nome che camminano su quelle strade polverose accanto all’autostrada, mentre aspettano che quella bellissima dichiarazione universale dei diritti umani diventi realtà, anche se con quasi settant'anni di ritardo.
Perché, in fondo, se lo si vuole veramente, tutto è possibile.
Silvia - Brasile
"Silvia fallo". Questo è stato l'ultimo dialogo con me stessa pochi minuti prima di inviare la candidatura. Mille perplessità ed incertezze. Non ero mai partita prima per queste tipo di esperienze, ma un desiderio inspiegabile di volerlo fare viveva in me da troppo tempo ormai. È così, un passaporto, una valigia ed uno zaino sono stati la mia compagnia per quasi tre giorni di volo. E poi eccolo, un piccolo aeroporto, un vento caldo, ed una scritta " Bem-vindo ao Juazeiro do Norte". Pochi giorni di disorientamento e poi fu subito casa. Sono stata accolta da quella che è poi diventata la mia famiglia in questo mese, in una comunità di missionarie delle suore Camiliane a Juazeiro do Norte, rinomata per essere la capitale brasiliana delle violenze (di qualsiasi tipo) soprattutto verso il genere femminile. Ogni mattina occhi e cuore si immergevano nelle strade, nei racconti, nelle storie che ascoltavo e vedevo durante le quotidiane "visite domiciliari". Una periferia di povertà e violenza, dove sorgono piccole strade di terra rossa, ovvero piccole ma numerosissime favelas. Il pomeriggio, invece, dalle due alle cinque eravamo impegnate al centro di accoglienza, lì si svolgono corsi di vario tipo e soprattutto, la maggior parte professionalizzanti tra cui quella di cucito è quello di artigianato. Gli altri invece riguardavano lezioni di chitarra, di piscina, di informatica o semplici attività di gioco e socializzazione. Le prime due settimane osservavo, partecipavo, davo una mano, dopodiché ho iniziato (due volte a settimana) a fare corsi di italiano per bambine ed adolescenti. Foto, interviste, racconti erano parte delle mie giornate. Lacrime, rabbia ed impotenza le emozioni più dure da mandare giù. Non è facile dare per scontato tutti i vissuti di queste ragazze, la maggior parte vittime di violenza, o legate a prostituzione e soprattutto droga, elemento molto forte in quelle zone. Ho lasciato un paese ed un quartiere che era diventano il mio, una casa ed una comunità che era e continuo a dire che è tutt'ora la mia famiglia. Ma soprattutto le mie bambine ed ragazze, che porterò con me sempre, il loro sorriso, la loro forza ed il loro coraggio. Non c'è niente di più difficile del ritorno. Un pezzo di me è rimasto lì e forse non farà più parte di me, ma sono contenta che sia rimasto là, con il mio ricordo ed il mio contributo. Per me però questa esperienza è stato l'inizio della mia vita. Inizierò l'università, studierò, continuerò a lavorare nell'ambito del sociale e tornerò, certo che tornerò, con un progetto, proprio come mi è stato chiesto prima di ripartire. Un po' glielo devo, anche perché, per me sono loro che hanno aiutato, in un certo qual modo, me.
Responsabile: Matteo Calabresi - Coordinamento redazionale: Maria Grazia Bambino - E-mail: newsletterincerchio@sovvenire.it
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